Quanto ci sia di vero in questo ritornello popolare non è questione interessante. Nonostante i tempi, negli “Abruzzi” resiste ancora il detto che associa l’andatura delle donne locali al portamento elegante di regine e dame semicoronate. Scriveva Maud Howe nel suo libro “Cronaca di viaggio tra i monte d’Abruzzo nell’autunno del 1898”, in riferimento alle donne di Scanno: Presso la fontana appena fuori la porta una dozzina di donne e ragazze stavano ad attingere acqua. Il loro portamento era libero e nobile.
Il merito, a torto o ragione, è tutto della conca, il recipiente di rame un tempo utilizzato per rifornire d’acqua tutte le case di paese, inevitabilmente sprovviste di servizio idrico diretto. Si andava a prendere alla fontana pubblica, l’acqua, riempendo il contenitore diverse volte nel corso della giornata lungo un tragitto che era insieme dovuto e desiderato. Perché alla fontana, con la conca, erano solo le donne ad andare. Le giovani in particolare si tenevano buona la circostanza per uscire di casa, partecipare al poco o tanto che la piazza offriva e, soprattutto, incontrare i coetanei, spasimanti o spasimati che fossero. Di tutto questo la conca era sempre silenziosa testimone e discreta compagna. Seguiva i passi da casa condotta per un braccio e, dopo aver rumoreggiato sotto al fiotto freddo della fonte, riposava sulla pietra aspettando che le parole e le confidenze finissero di scorrere. Poi prendeva posto sul capo, sopra lo strofinaccio (la spara) attorcigliato a cercine, sorretta prima da una sola mano e poi in un equilibrio tanto complesso quanto naturale. Perché alla conca le ragazze erano abituate sin da piccole, come se davvero quell’oggetto fosse votato per destino a diventare un leale compagno di vita; come scrive la pescarese Angela Cascini nella sua poesia “U pozze”: Ugne vote che apre lu rubbinette / m’arecorde quand’ere bbardasce / l’acqua dentre a le case non ce steve / e mamme m’avè ‘ccattate ‘na cungarelle (Ogni volta che apro il rubinetto, mi ricordo di quando ero bambina, l’acqua dentro alle case non c’era, e mamma mi aveva comprato una piccola conca). D’altra parte, anche la tipica forma ad anfora del recipiente ricorda e rievoca da vicino la sinuosità del profilo femminile, quasi a rinsaldare un antico legame naturale.
Il posto della conca, dentro casa, era accanto alla porta d’ingresso, dove tutti gli ospiti ed i familiari potevano attingere l’acqua autonomamente. Per farlo si servivano dal “maniere” (manero, manire, manere, maniero, nei vari dialetti abruzzesi), il mestolo in rame che veniva agganciato al bordo del recipiente ed utilizzato in sequenza da tutti. Su questa consuetudine, in particolare, esistono diversi aneddoti e racconti popolari. Uno dei tanti è ambientato nel borgo di Cese, dove si dice fosse di passaggio un nobile in carrozza che, preso dalla sete, inviò il proprio cocchiere a domandare da bere ad una modesta popolana incrociata sull’uscio di casa. Il padrone, osservata la scena a distanza, prese lo strano utensile e fissò attentamente il “beccuccio” nel cui incavo aveva poggiato la bocca il sottoposto… e chissà quanti altri. Si fece coraggio e, ruotando il manico uncinato, bevve dalla parte opposta al beccuccio. Quando ebbe finito, la massaia concluse: «Si vede che sei un signore, e anche diverso dal tuo cocchiere. Tu non hai fatto come lui che ha bevuto dalla parte in cui possono mettere la bocca tutti, ma hai fatto come tutti quelli di casa: noi, per evitare, le labbra le mettiamo proprio dove le hai messe tu».
Alla conca è legata anche la forte tradizione artigianale dei ramaioli abruzzesi. La diffusione del recipiente, come degli altri utensili in rame che affollavano le cucine di un tempo, era talmente rilevante da generare un’economia a sé, fatta di manualità, arte e riparazioni battenti. Come altri oggetti della quotidianità, anche la conca ha occupato un posto assolutamente centrale nelle lavorazioni artigianali, così come nell’economia domestica.
Per quanto attiene alla dimensione linguistica, è da annotare come nel vocabolario abruzzese e molisano esista ancora un dualismo radicato tra “conca” e “tina”. Con questo secondo termine, infatti, gli esperti individuano “un recipiente dal fondo concavo, con un restringimento caratterizzante che ne modifica totalmente la forma e la rende più simile ad un’anfora che ad una conca. I due manici inseriti ai lati, poi, accentuano l’uso che se ne fa, cioè di contenitore di liquidi, in particolare acqua”. Una descrizione che, a ben guardare, coincide praticamente con quella della “conca”, termine certamente più diffuso ed adatto a descrivere il recipiente che è diventato il simbolo dell’Abruzzo nel mondo. Che si creda o no alla storia del portamento regale delle donne locali.